Storie di vampiri, storie di immortali. Con
questa certezza nel cuore camminavo quella sera verso casa. Sapevo che Hayleen
aveva rappresentato col suo ingresso nella mia vita un passo avanti, un
avvicinamento verso quel comune concetto di felicità cui da sempre anelavo. E non
di meno mi spaventava l’idea che questa mia ritrovata, e appena conquistata gioia,
dipendesse in così alta forma dal suo volere. Era in fondo la sua vicinanza
qualcosa di imposto, che non nasceva da una mia consapevole decisione. Era un
regalo se lo si vuol vedere sotto un’altra veste. Una costrizione a volte.
Così, come spesso mi accadeva, rientrando a casa non mi recai a salutarla nella
nostra stanza del sonno. Come se nulla fosse e ancora abitassi da solo andai
invece in cucina dove trovai ad aspettarmi i residui della pasta d’orzo della
mattina. Con un cucchiaio mi servii abbondantemente della pastina ormai scotta
e quasi gelata, poi lentamente inziai a camminare verso di lei. Mi denudavo
mentre i passi insicuri mi conducevano dalla mia novella sposa. Entrando nella
stanza, nudo mi sdraiai accanto al suo corpo esangue e bianco. il volto
emaciato girato di lato mostrava le ossa della mandibola e gli zigomi resi duri
dalla mancanza di nutrimento. Voltandomi le presi il volto tra le dita e lo
accostai al naso. il suo respiro mi riscaldò per un istante. Flebile come
quello di un neonato eppure infinitamente più doloroso. Le mie labbra si
accostarono alle sue. e la mia bocca aderì completamente schudendosi in un
invito cui corrispose una risposta spenta. Come sempre mi voltai verso la
cassettiera al lato del letto e ne estrassi il piccolo pugnale dall’imugnatura
in legno d’acero. La punta affilata risaltava dello scuro dei giorni
precedenti. il mio volto solitario si rifletteva nella lama lucida e brillante.
Infilai la punta sotto il piede, e bucai la pelle morbida sotto le dita. Non
potevo rischiare di procurarmi altri buchi sospetti. non in un’epoca di
malattie infettive e mortali. Bucai e la mia pelle rispose con un sorriso rosso
il cui odore metallico si diffuse in un istante nella stanza e venne recepito
immediatamente dalle mie narici rese ormai percettive dal duro regime cui
Ayleen mi sottoponeva da settimane. Immediatamente ascoltai il respiro della
donna che mi era accanto farsi più forte. un suo verso gutturale mi regalò
brividi che mi annuciarono il piacere che stava per venire attraverso le sue
cure. Voltandosi fino a ricoprirmi del suo corpo avvertii il suo peso sulle mie
membra. Languidamente la mia pelle mi rivelò il suo lento strisciare ai miei piedi
dove le sue labbra si aprirono e la sua bocca iniziò a succhiare. Come una
schiava in una forma di adorazione sentivo il calore della sua saliva
inumidirmi le dita mentre ascoltavo i versi della sua gola succhiare il
prezioso nutrimento.
Mutande x
venerdì 8 febbraio 2013
Parole
Poggia la testa sul cuscino...così.
Aspetta.
Non ti ho detto di baciarmi.
Resta immobile per favore, voglio guardarti.
Sei
bellissima.
Hai un corpo bellissimo e un viso bellissimo e il tuo sorriso è
delizioso.
Adesso lascia che ti baci.
Chiudi gli occhi per favore. grazie.
No,
no, non devi rispondere al bacio.
Socchiudi le labbra e lascia che sia io a
entrare nella tua bocca.
Sei morbida.
Come mai ti trema il mento se ti passo la
lingua sulle labbra?
La mia è una carezza, senti com'è delicata.
Mi piace
baciarti così.
Metti le braccia dietro, come fossi legata.
Brava. Immobile.
Devi stare sempre immobile quando sono con te.
Permettimi di scoprire il tuo
corpo.
Al tuo seno piace, senti com'è sensibile? Adesso lo morderò...tu rimani
con gli occhi chiusi e non emettere neanche un respiro. Non voglio punirti.
Visto? E' già finito.
Lo so, ti ha fatto un pò male ma senti com'è più sensibile
adesso?
Voglio che tu ti fidi di me.
Apri gli occhi. Guardami.
Voglio che tu mi
prometta che ti affiderai a me. Che non avrai mai paura di quello che ti farò.
Che anche nel dolore sarai pronta a lasciarti trasportare dalle mie parole e
dai miei gesti. Che farai tutto ciò che ti chiederò. Senza mai chiedermi il
perché. Se lo farai ti prometto di starti accanto, di non abbandonarti mai al
silenzio se non per il piacere di farlo.
Ti curerò quando ne avrai bisogno.
Berrò le tue lacrime se me lo chiederai.
Ti laverò, ti asciugherò, pettinerò i
tuoi capelli.
Cucinerò per te e ti imboccherò.
Ti guarderò ridere. Ogni tuo
sorriso sarà mio. Così come ogni attimo della tua sofferenza.
Vivrò di te e
delle tue emozioni e tu vivrai delle sensazioni che saprò darti.
Aspetta che mi
avvicini alla tua bocca.
Rispondimi.
Grazie.
Lascia che ti baci adesso.
No, non
sulle labbra.
Hai un buon sapore.
Leccami le dita.
Brava.
Ti piace il tuo
sapore? Si?
Lo berrai ogni volta che lo berrò io.
Il tuo piacere sarà di tutti
e due.
Lascia che ti disseti con la mia bocca adesso.
Ti amo
Un pensiero nel cuore
Portarmi dietro un pensiero nel cuore. Questo faccio da sempre.
Questo condiziona la mia vita e il mio modo di essere. A volte diviene un’ansia
incontrollabile che sembra dovermi schiacciare. A volte invece ha le tinte
sbiadite di un ricordo, nemmeno troppo delicato, che ritorna e mi fa
rabbrividire. Tutto ruota attorno a esso, in quei momenti, e tutto sembra ruotare
attorno a me. A volte invece si trasforma in pregiudizio e allora non esistono
che parole aspre da scagliare in faccia a chi mi è vicino…o a me stesso. Essere
il peggior peccato commesso da una persona. Il su unico cruccio. L’unico vero
errore. Non esistono privazioni troppo dure o sacrifici abbastanza grandi per
cercare di porvi rimedio. Perché, semplicemente, rimedio non esiste. La sua
voce spesso ritorna chiara alla mie orecchie. Profonda o sottile come una
carezza, quando invece dovrebbe essere uno schiaffo. E allora sorrido. E mi
volto indietro sapendo di essere seguito. E mi fermo per permetterle di
raggiungermi. Ma la verità è che IO non sono un ricordo. Io non sono nessuna
voce, nessuna carezza. Resto un errore. Gigantesco. Eppure dentro di me rimane
una certezza. Che lei non è ciò che appare e che testardamente dice di essere.
Per me lei continuerà ad essere e resterà per sempre la donna che ho visto il
giorno in cui per la prima volta le regalai esperienza. Gli occhi luminosi, la
fronte lucida rivestita di piccole perle trasparenti. E la voce tremante,
uguale a quella di sua madre, che né io né lei abbiamo mai conosciuto, ma che
in quel momento sapevo, stava parlando attraverso la sua bocca. La fermai
mentre scappava e si allontanava spaventata e le presi il viso tra le mie mani
che in quel momento sentivo enormi e protettive, come mai più mi sarebbe
capitato. E le baciai le labbra, in un gesto di affetto e tenerezza. Capii che
avrei vissuto per pochi altri momenti, importanti come quello. Da allora ancora
sto aspettando. I miei occhi sono pieni delle lacrime che lei non ha voluto
versare, quando doveva. E le mie gambe, le braccia, il corpo intero vibrano al
ricordo di qualcosa che solo lei ha vissuto. È la mia meravigliosa condanna
questa. Essere uno dei pochi che sa, e per questo non poter pretendere nulla
più che brutalità. E rimorsi. E terrore, che di notte ancora provo quando penso
alle sue scelte. Non rimpiango nulla del mio passato, perché questo
significherebbe dire addio per sempre a un periodo che è stato la mia vita
intera. E che mi ha reso ciò che sono. Rimpiango di essere stato e, di
continuare ad essere nei suoi pensieri, la causa del suo unico dolore. Non
verrò mai affrancato per questo, e le spalle già mi si stanno incurvando sotto il
peso che mi schiaccia. Sono già stato dimenticato, e lo sarò di nuovo perché
nulla di ciò che ho dato è stato accettato. Nulla di ciò che ho sentito,
corrisposto. Ma non rimpiango neanche questo. L’unica cosa che ancora mi fa
male è che il suo ritorno ha cancellato una parte del mio dolore che adesso,
che è di nuovo lontana, non sembra tornare. Eri il mio dolore. Il pensiero
fisso che ispirava e cancellava le mie giornate. Non pensarmi non mi ha mai
fatto dimenticare. Eri il mio privilegio. Perché potevo pensarti e piangerti e
compatirti e urlare anche. Perché eri il volto del mio dolore. E potevo farlo.
Potevo illudermi che fosse la sofferenza a costringerti a me lontana. Che le
mie lacrime erano versate dai tuoi occhi, e che i tuoi pensieri erano dedicati
in cuor tuo a me. Mi hai tolto questa certezza, l’hai vestita di dimenticanza.
Mi hai privato della mia malinconia, che ormai era un’amica, e mi hai lasciato
solo con colpe che dovrei provare e che invece non sento mie. Questo è il
peccato più grande che hai commesso. Mi hai lasciato nudo nell’anima e col
cuore vuoto. Perché ora so che non posso piangere per te, perché tu non lo hai
mai fatto. Perchè ora so che non c’era nulla che ci costringeva lontani, solo
una scelta. Perché, infine, ora so che non sono stato nulla… se non un pensiero
da portarti per sempre nel cuore.
Ricordo 2
DA ADESSO SARAI UN RICORDO LONTANO. UN PAGINA SCOLORITA CHE
BRUCERà DENTRO DI ME. E DEL SUO FUMO MI INTOSSICHERò E MI INEBRIERò. COME NON
HO MAI FATTO CON NESSUNA FRAGRANZA. COME NON HO FATTO MAI. SARAI SOLO PAROLE
NON DETTE. NEMMENO SUSSURRATE. SARAI UNA CAREZZA DESIDERATA QUANDO SARò TRISTE.
UN BACIO SOGNATO NEL DORMIVEGLIA. FOTO. CHE RIPRENDERò QUANDO MI SENTIRò SOLO E
CHE CONTEMPLERò IN SILENZIO INSIEME AL DESIDERIO DI TE. SARAI UNA STELLA NEL
CIELO QUANDO SARò SDRAIATO SULLA SPIAGGIA DI NOTTE. UNA STELLA CADENTE COME
SIAMO NOI ADESSO. SARAI SENSAZIONI ED EMOZIONI CHE NON RIUSCIRò AD AFFERRARE.
SARAI UN RIMPIANTO, UNA TRISTEZZA LONTANA, UNA MALINCONIA SOTTILE CHE NON
AMMETTERò MAI. SARAI POLVERE QUANDO STARNUTIRò. SARAI LACRIME CHE NON VERSERò
Più. SARAI LA DISPERAZIONE CHE MI ACCOMPAGNERà QUANDO SARò TROPPO UBRIACO PER
RIDERE. SARAI UN SORRISO CHE MI AFFIORERà SULLE LABBRA QUANDO PENSERò AI
MOMENTI BELLI DELLA MIA VITA. SARAI UN DELITTO CHE NON AVRò MAI IL CORAGGIO DI
PERPETRARE. SARAI LA SOLITUDINE QUANDO FUMERò DI NOTTE NEL MIO LETTO. SARAI UN
SEGNO INESISTENTE SUL MATERASSO. IL CUSCINO CHE ABBRACCERò MENTRE DORMO. SARAI
UN SOGNO CHE CONTINUERò A FARE TUTTE LE NOTTI SENZA CAPIRLO. E CHE MI FARà STAR
MALE AL RISVEGLIO. SARAI LA VOGLIA DI VIVERE E QUELLA DI MORIRE. SARAI SOLO
UN RICORDO LONTANO DA SCRIVERE E PENSARE.
Un ricordo
Di lei mi è rimasto il ricordo. Ogni tanto mi riscalda,
ogni tanto mi fa sentire freddo, ma il più delle volte se ne sta lì. A
fissarmi. E io la guardo in quei suoi occhi di quel grigio opaco e penetrante.
E mi ci perdo dentro.
Vivono tra noi
C’è questo tizio. Alto, carnagione scura, mento
sporgente, occhi infossati nelle orbite. Un neo sulla fronte. Nel centro esatto
della fronte, quasi a dividere perfettamente il viso insieme alla linea del
naso. Ha capelli neri, lisci. Labbra sottili, orecchie piccole, una lieve
peluria stranamente chiara, sul rossiccio, che gli scurisce le guance e fa
sembrare più grossi gli zigomi. Sarà più o meno alto un metro e ottanta. Veste
di nero. Giubbotto nero di pelle, t-shirt nera che si intravede perché il
giubbotto e sbottonato. Jeans neri piuttosto attillati, a vita bassa. Anfibi
neri. Infila una mano nella borsa che ha accanto ai piedi per terra. È una
borsa da computer. Di quelle capienti. Tira fuori degli occhiali da sole,
montatura e lenti nere. Si copre gli occhi, di un verde brillante. Il sole è alto
nel cielo. Ma fa freddo. Tira una brezza gelata. La strada è deserta. Il nostro
tizio sta sul marciapiede. Dritto, rigido nelle sue spalle larghe. Ad un certo
punto esplode un rumore nel silenzio assordante. Davanti a lui si avvicina
un’utilitaria verde. Accosta al marciapiede di fronte. Si apre la portiera. Il
riverbero del sole sul finestrino emette un strano scintillio. Ne scende una
ragazza longilinea, alta. Gambe lunghe. Tacchi a spillo da 12 cm, mini gonna
rossa. Seno prosperoso strizzato in una camicetta bianca di un paio di misure
più piccola. Capelli lunghi che le arrivano sulle spalle, colore d’oro. Labbra
morbide e rosse, occhiali da sole rossi, lineamenti sottili e delicati. Ha le
mani lunghe, le dita affusolate. Non porta anelli né orecchini. Si attarda a
raccogliere qualcosa dal retro della macchina. Tira fuori una 24 ore. Rossa.
Cammina verso il nostro tizio. Camminata sicura. I tacchi emettono un
ticchettio che rimbomba nell’assurdo vuoto siderale della strada deserta. I
passi sono calcolati. Brevi, decisi. Sensuali. Il sole le illumina il viso
rendendola quasi eterea. Con una mano si scosta una ciocca di capelli dalla
fronte imperlata di sudore. La minigonna è di pelle. Arriva davanti al tizio di
prima. Lo guarda fisso nelle lenti scure. Sorride, scoprendo denti bianchi e
regolari. Si accarezza le labbra con la lingua. Con fare da santa puttana.
-è quella?- dice lui interrompendo il
silenzio e indicando la 24 ore nelle mani della ragazza..
Bel timbro di voce. Profondo, professionale.
-è quella?- risponde lei con voce che sa di
miele, e pelle di vaniglia.
Il tizio accenna un sorriso, a mezza bocca,
rapido. Breve. Già finito.
Raccoglie la borsa da terra e gliela passa.
Lei gli passa la valigetta. Poi il tizio va via verso il nulla che colora
d’azzurro l’orizzonte. Lei ritorna rapidamente in macchina. Gira le chiavi,
mette in moto. Fissa la borsa, la prende e se la mette sulle gambe pensando che
lui farà lo stesso appena raggiunto quel punto invisibile in cui si diventa
parte del niente. Apre la chiusura lampo sulla sommità e ci guarda dentro.
Sorride. Infila la mano dentro la borsa e
tira fuori il corpicino di un bambino. Appena nato. Appena morto.
Di nuovo s’inumidisce le labbra. Spegne la
macchina. Stringe il corpicino tra le braccia, sul suo seno. Cullandolo.
Avvicinandolo al grembo materno quasi per allattarlo in una caricatura d’amore
materno.
Lo tiene in una stretta forte ma affettuosa.
Avvicina il piccolo capo al naso. Si inebria dell’odore d’innocenza di quella
piccola bambola fatta di carne. Sorride. Allarga la bocca. Poi la spalanca in
un modo innaturale, fa quasi paura. Lancia un rapido sguardo allo specchietto.
E affonda i denti nel cranio tenero dell’infante. Un rumore di piccole ossa
frantumate da zanne fa eco alla pace del deserto che la divora. Poi si sente
succhiare. E il volto della bella ragazza dalla carnagione chiara diviene scuro
di sangue e cervella.
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