C’è questo tizio. Alto, carnagione scura, mento
sporgente, occhi infossati nelle orbite. Un neo sulla fronte. Nel centro esatto
della fronte, quasi a dividere perfettamente il viso insieme alla linea del
naso. Ha capelli neri, lisci. Labbra sottili, orecchie piccole, una lieve
peluria stranamente chiara, sul rossiccio, che gli scurisce le guance e fa
sembrare più grossi gli zigomi. Sarà più o meno alto un metro e ottanta. Veste
di nero. Giubbotto nero di pelle, t-shirt nera che si intravede perché il
giubbotto e sbottonato. Jeans neri piuttosto attillati, a vita bassa. Anfibi
neri. Infila una mano nella borsa che ha accanto ai piedi per terra. È una
borsa da computer. Di quelle capienti. Tira fuori degli occhiali da sole,
montatura e lenti nere. Si copre gli occhi, di un verde brillante. Il sole è alto
nel cielo. Ma fa freddo. Tira una brezza gelata. La strada è deserta. Il nostro
tizio sta sul marciapiede. Dritto, rigido nelle sue spalle larghe. Ad un certo
punto esplode un rumore nel silenzio assordante. Davanti a lui si avvicina
un’utilitaria verde. Accosta al marciapiede di fronte. Si apre la portiera. Il
riverbero del sole sul finestrino emette un strano scintillio. Ne scende una
ragazza longilinea, alta. Gambe lunghe. Tacchi a spillo da 12 cm, mini gonna
rossa. Seno prosperoso strizzato in una camicetta bianca di un paio di misure
più piccola. Capelli lunghi che le arrivano sulle spalle, colore d’oro. Labbra
morbide e rosse, occhiali da sole rossi, lineamenti sottili e delicati. Ha le
mani lunghe, le dita affusolate. Non porta anelli né orecchini. Si attarda a
raccogliere qualcosa dal retro della macchina. Tira fuori una 24 ore. Rossa.
Cammina verso il nostro tizio. Camminata sicura. I tacchi emettono un
ticchettio che rimbomba nell’assurdo vuoto siderale della strada deserta. I
passi sono calcolati. Brevi, decisi. Sensuali. Il sole le illumina il viso
rendendola quasi eterea. Con una mano si scosta una ciocca di capelli dalla
fronte imperlata di sudore. La minigonna è di pelle. Arriva davanti al tizio di
prima. Lo guarda fisso nelle lenti scure. Sorride, scoprendo denti bianchi e
regolari. Si accarezza le labbra con la lingua. Con fare da santa puttana.
-è quella?- dice lui interrompendo il
silenzio e indicando la 24 ore nelle mani della ragazza..
Bel timbro di voce. Profondo, professionale.
-è quella?- risponde lei con voce che sa di
miele, e pelle di vaniglia.
Il tizio accenna un sorriso, a mezza bocca,
rapido. Breve. Già finito.
Raccoglie la borsa da terra e gliela passa.
Lei gli passa la valigetta. Poi il tizio va via verso il nulla che colora
d’azzurro l’orizzonte. Lei ritorna rapidamente in macchina. Gira le chiavi,
mette in moto. Fissa la borsa, la prende e se la mette sulle gambe pensando che
lui farà lo stesso appena raggiunto quel punto invisibile in cui si diventa
parte del niente. Apre la chiusura lampo sulla sommità e ci guarda dentro.
Sorride. Infila la mano dentro la borsa e
tira fuori il corpicino di un bambino. Appena nato. Appena morto.
Di nuovo s’inumidisce le labbra. Spegne la
macchina. Stringe il corpicino tra le braccia, sul suo seno. Cullandolo.
Avvicinandolo al grembo materno quasi per allattarlo in una caricatura d’amore
materno.
Lo tiene in una stretta forte ma affettuosa.
Avvicina il piccolo capo al naso. Si inebria dell’odore d’innocenza di quella
piccola bambola fatta di carne. Sorride. Allarga la bocca. Poi la spalanca in
un modo innaturale, fa quasi paura. Lancia un rapido sguardo allo specchietto.
E affonda i denti nel cranio tenero dell’infante. Un rumore di piccole ossa
frantumate da zanne fa eco alla pace del deserto che la divora. Poi si sente
succhiare. E il volto della bella ragazza dalla carnagione chiara diviene scuro
di sangue e cervella.
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